ECM EMPATIA E BURNOUT, L’EMOZIONANTE RACCONTO DI UNA DOTTORESSA
La mia parola di partenza è stata “nostalgia”.
Ho una discreta età e la decisione di partecipare a questo incontro nasceva dal ricordo di un corso di counseling a cui ho partecipato, più di vent’anni fa, con la dr.ssa Quadrino e il dr. Bert. Allora un cambiamento mi sembrava possibile. Era un momento del mio lavoro in cui mi sentivo una trapezista. Mi capitava di prendere decisioni diverse di fronte a situazioni clinicamente uguali in funzione di quello che mi sembrava di intuire del mio interlocutore. E questo mi faceva sentire incoerente e poco professionale. Fu la Dr.ssa Quadrino a farmi notare che, non noi sul trapezio, ma il trapezio stesso andava lanciato verso l’altro perché se ne potesse avvantaggiare e farne un uso opportuno per sé. Qualche volta, quel trapezio io lo lancio sul naso dell’altro. E non credo fosse questo l’insegnamento.
E poi dal fatto che l’oggetto, infine, era, se così si può dire, la patologia dell’operatore e non dell’interlocutore/cliente/paziente. Tema questo che sento molto.
Con gli anni, prossima alla fine della vita lavorativa, paradossalmente, il problema del Burnout lo sento anche di più. E non tanto per il lavoro, che continua a piacermi, anche se i cambiamenti (più dei nuovi scenari che miei) me lo fanno sentire spesso gravoso e nei pensieri riaffiora un antico ritornello “tanto non serve a niente”. Vicina alla pensione, temo un Burnout del dopo lavoro: quando, tolto il ruolo, quel che resta è poco.
Ma, con sorpresa, la mia considerazione finale è stata “si può ancora fare”
E a sollecitarla è stato un flash: improvvisamente, nella mattinata di domenica, ho sentito il desiderio di conoscere meglio le persone che con me hanno partecipato al corso. Non erano “comparse” erano presenti e vive. E ognuno in modo assolutamente personale, rappresentava un disagio condiviso. Ma, ahimè, troppo tardi. Neppure il nome è rimasto. E una condivisione così stretta, in unità di tempo, luogo, azione, bisogni, restano le parole. Mi ricordo, per ora, il viso e la voce di chi le ha dette, ma in molti casi non ne ricordo il nome. E, se è forse vero che la vita è l’arte degli addii, domenica mattina, ai saluti, avrei voluto che fosse un inizio.
Vi ringrazio per quel sorriso che la Dr.ssa Ferrara faceva notare sul volto degli studenti che uscivano dalla mostra di quadri, e che era diventato anche il nostro. Lo sguardo sul mondo, specie sull’opera di chi ne ha saputo fare una sintesi, così ricca di particolari che spesso sfuggono, ci riconcilia con la sua bellezza e ce ne fa partecipi.
Il Corso. Tante informazioni. Forse troppe. Ma, forse anche, è giusto così, per avere un’idea di quanto lavoro c’è da fare su di sé affinché lo spettacolo, che tutti i giorni ci sembra uguale, non ci venga a noia e si estenda anche oltre, nella nostra vita personale; anzi scoprire che ogni giorno, in ogni caso, mette a dura prova la nostra capacità di esserci. Perché ogni volta lo scenario cambia, in virtù di quei particolari a cui non facciamo caso, così presi dalla routine. E così cambiamo anche noi. E, nel lavoro, non solo per le informazioni che il paziente ci dà, ma anche perché riusciamo a vedere qualche cosa in più e, di quello scenario, riusciamo a intuirne la coerenza, la bellezza e il dolore, che continua anche dopo, nei nostri rapporti personali, fuori dal ruolo.
Tuttavia le informazioni mi sono arrivate in maniera un po’ “zibaldonica”. Certo anche per limiti personali. La parte che ho trovato più pesante è stata la mattinata del sabato. Troppe informazioni, troppe didascaliche. La parte più emozionante il pomeriggio dello stesso giorno, che ha messo a dura prova la nostra attitudine al giudizio e al pre-giudizio. La parte più rilassante, ma anche commovente, sono state le serate che la Dr.ssa Di Rienzo ci ha regalato.
Rifare lo stesso corso con altri partecipanti un po’ mi inquieterebbe. In ogni caso penso che i due giorni passati insieme siano stati una boccata di ossigeno ai pensieri ridondanti e un impulso al cuore.
Grazie, Lorenza
Lorenza Arnaboldi