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"Tutto chiede salvezza"
vince il "Premio Strega Giovani"

Il vincitore, Daniele Mencarelli, presenta il suo romanzo alla redazione di “Cultura è Salute”, ripercorrendo gli anni difficili delle dipendenze e del Tso, ponendo l’accento sul potere salvifico della letteratura.

Raccontare questa esperienza è sicuramente un atto coraggioso, sia perché ti sei esposto parlando di vissuti intimi, sia perché inevitabilmente il contenuto si pone anche come critica a quel mondo della psichiatria che pratica il TSO e altri metodi di contenzione ledendo la libertà del paziente. Come vivi oggi, dopo la pubblicazione, questa scelta?

E’ stata una scelta molto ponderata e tra i fatti che racconto c’è dentro una grande parentesi di tempo, perché avevo bisogno io stesso di molto tempo per allontanarmi dagli stessi fatti del racconto;  ma c’era anche una volontà molto forte di tornare a quelle esperienze e di condividerle. Non è stato semplice ma, partendo dal primo libro che avevo scritto, questo romanzo biografico rappresenta il mio desiderio di condivisione con gli altri. I temi che affronto sono ancora oggi molto attuali e presenti, purtroppo, nella vita di tante persone. Il libro ha richiesto fatica, tanta, ma alla fine al di là del riconoscimento “Premio Strega Giovani” è stato da subito ben accolto dunque il mio impegno è stato ampiamente ripagato.

Possiamo dire che il potere della scrittura ha rappresentato un canale importante per permetterti di superare il disagio che hai vissuto?

Non credo alla scrittura come terapia ma è un qualcosa che si svolge per un desiderio, quello di relazionarsi con gli altri. In fondo che io parta da un’astrazione, da un’immaginazione o un dato biografico, resta sempre il fatto che l’arte cerca l’altro. Scrivere non mi alleggerisce, è un atto faticoso, sempre. Non è un esercizio semplice, ma detto questo, se devo ragionare in modo più ampio allora posso dire senz’altro che la letteratura è stata LA relazione che più di ogni altra mi ha fatto compagnia e mi ha fatto riemergere da periodi difficili, come quelli che racconto nel libro. Dai 17 ai 27 anni ho avuto una vita molto turbolenta e, se riguardo a quegli anni, l’unica relazione costante è stata proprio con la letteratura: prima con la lettura, moltissimo, e poi con la scrittura.  Incontrare gli autori che ritengo fondamentali per la mia vita, è stato una compagnia per me, mi ha permesso d’infrangere il terrore di sentirmi solo. La lettura mi ha messo in relazione con sguardi, voci, uomini che vedevano e sentivano il mondo come sentivo io.

Se vogliamo, tutte le forme di espressività facilitano nell'essere umano l'affermazione di un potenziale, quasi sempre inespresso, permettendone l'autorealizzazione. Credi che l'arte, o le forme espressive in generale, rappresentino una possibilità concreta per il benessere della persona, e un vero e proprio strumento di cura per chi vive un disagio?

Il mio romanzo fa qualcosa di diverso: sottrae al tema della malattia un certo tipo di natura; nel mio libro l’arte non è uno strumento di terapia perché non c’è niente da curare. L’arte non è intesa come concetto scientifico; l’arte in questo caso riconosce una dignità, uno status quo che la malattia non riconosce. Dunque credo che l’arte sia fondamentale se serve al paziente ad esprimere ciò che sente dentro, ma l’arte non nasce come germinazione dalla malattia. Oggi il problema è che un certo tipo di natura umana, molto interrogativa e vitale, che rientra nell’indole tipica di chi sfocia nelle discipline artistiche o altre forme di espressioni, viene spesso incanalata dentro quel grande mondo della psichiatria. Ma dove tanti medici vedevano solo malattia, tanti artisti hanno visto un modo di essere. L’arte è uno strumento in mano di chi è vivo e innamorato.

Pensi che il tuo racconto possa essere utile alle persone che ancora oggi subiscono il Trattamento Sanitario Obbligatorio?

Sì e veniamo all’elemento “terapeutico” o comunque utile. Un libro diventa un elemento di aiuto, un sostegno per chi nella vita sta vivendo esperienze o prove simili a quelle che ho raccontato io. O magari le esperienze esterne sono diverse ma c’è una forte empatia con il protagonista del libro, una sorta di immedesimazione che può aiutare in certi periodi burrascosi della vita. E’ questo l’elemento salvifico del romanzo: chi scrive pensa che potrà essere utile a chi lo leggerà.

In che modo ti piacerebbe arrivare alle persone con la medesima esperienza?

Il “Premio Strega Giovani” è stato una meravigliosa conferma ed uno slancio a continuare; vedo tantissimi ragazzi nel corso della mia normale attività e preferisco questo tipo d’interlocuzione rispetto agli adulti. Prima del covid, dall’autunno a febbraio scorso, ho incontrato quasi 8.000 ragazzi e mi piace lasciare loro questo messaggio: c’è un’età, che per molti è positiva e leggera, ovvero gli anni dell’adolescenza, che da alcuni viene vissuta in modo più complesso. Dicendo sempre ai ragazzi una cosa fondamentale: esiste il tema del disturbo mentale, della malattia vera e propria, ma un giovane che s’interroga sulla sua natura e vorrebbe sperimentare di più se stesso, cercando risposte a grandi domande di senso, non deve per forza essere considerato un giovane che soffre di nevrosi o depressione. In fondo è sintomo di curiosità, anche se oggi siamo molto incanalati in percorsi rigidi e fatti di regole prestabilite, come il dover studiare, andare bene a scuola, trovare un lavoro stabile. Ma non siamo né macchine né esseri perfetti e quindi a 20 anni credo sia giusto andare anche in crisi. E’ la nostra natura!

A cura della Redazione di Cultura è Salute

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